Un solo paradiso di Giorgio Fontana

Poche pagine, neppure 200, che si bevono tutto d'un fiato e non si può pensare di interrompersi, perchè il filo che tiene unito il lettore alla storia è spesso e non si può recidere.

Milano, Milano con i suoi viali, le sue periferie nebbiose e buie, Milano col suo dedalo di viuzze del centro, Milano dei Navigli, Milano della Stazione Centrale. Forse è proprio il capoluogo lombardo, insieme ad Alessio, la protagonista del romanzo.

In ordine: un bar, di quelli anonimi, zona Porta Vittoria. Un incontro casuale tra due amici dopo anni di silenzio, due birre su un tavolino a riempire l'imbarazzo del momento e poi la lingua si scioglie e Alessio, come un fiume in piena, inizia a raccontare.

Alessio, che da sempre aveva fatto del "dolceamaro contentarsi" il suo mantra, lui che il jazz con il gruppo, ma mai fino in fondo, la ricerca dell'esecuzione perfetta che lambisce ma mai cattura, lui che il lavoro con web designer e poi le fughe nel fine settimana, solo, alla ricerca di scorci poco battuti.

Alessio, per caso un locale della zona Isola.
Per caso, per caso Martina. Una sigaretta e il riconoscersi in una comune passione: il jazz.

Martina, fragile e potente con la sua risata, Martina che conquista e travolge e modifica e scardina.

L'equilibrio a fatica raggiunto, il "dolceamaro contentarsi" che cede il posto alla passione, fino al totale abbandono all'amore, quello mai provato prima, quello mai creduto reale e possibile.

Gli amici, i viaggi, il sesso, tutto così perfetto. Troppo.

E poi il baratro. Martina scostante, Martina nervosa e distante, Martina che parte e ritorna e poi riparte per non tornare più, perchè la corsa è finita ed è giunto il momento di scendere.

Allora l'alcol come iniziale consolazione, consolazione che diventa bisogno e poi schiavitù.

Beve Alessio, beve e non suina più, beve e lavora e torna a casa e beve ancora. Non parla, non riesce, solo si stordisce fino ad annullare il dolore. Vino, birra e poi benzodiazepine.

Gli amici non credono possibile un tale annullamento. Provano a parlargli, lo cercano, lo invitano alla ragione. Ma non ragione non c'è. Non c'è spazio nella perfezione del suo dolore per il raziocinio.

Quella perfezione che Alessio ricercava nella tromba, la raggiunge nel dolore, un dolore che diventa annullarsi, fino a sparire.

Dall'altro capo del tavolino il narratore, l'amico depositario di questa storia che cerca di reagire a tanto dolore e tenta di far reagire l'amico, ma viene travolto fino a guardare, forse con un pizzico di ammirazione, tanta dedizione, tanta purezza, lui che, invece, scegli il dolceamaro contentarsi per fondarvi la sua esistenza.

Non ci sono eroi in questa storia, non ci sono nè vinti nè vincitori.
 Si chiude il libro è quello che resta è la "perfezione del dolore" è una serie di domande alle quali non si riesce a dare una risposta, forse perché la risposta è la vita stessa.

Consigliato, come gli altri dello stesso autore.
Una prosa limpida e raffinata, ma mai stucchevole, in cui le parole, solo quelle, posso esprimere il senso dei personaggi e il loro lasciare un'impronta.

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