Si fa presto a dire indifferenza

 Quante volte ho usato, talvolta anche abusato, la parola indifferenza.

Citando Gramsci e la sua arcinota "Odio gli indifferenti", Liliana Segre, quando racconta della tragedia della Shoah, falcone, Borsellino, Peppino Impastato, Peppe Diana, Giancarlo Siani e la lista sarebbe infinita.

 Quante volte ho provato a immaginarmi nei loro panni: l'immaginazione però ha il limite di non capire atraverso il corpo.

Si dice che per capire gli altri si dovrebbe camminare nelle loro scarpe per quindici giorni. 

A me è capitato di scivolare appena in una pozzanghera d'indifferenza per provare davvero, anche solo per una frazione di secondo, cosa significhi essere invisibile.

 

Nulla che sia degno di essere annoverato in qualche annale storico. Per me una svolta.

 

Pioveva a dirotto alle 14:15 di oggi, anche adesso il cielo non si sta risparmiando.

Il vento piegava l'ombrello rendendo difficile il camminare. Stavo andando a prendere Nina a scuola.

Il passo veloce di chi vuole arrivare presto alla meta per cercare un minuscolo riparo dalla pioggia.

All'improvviso ho avvertito il marciapiede sollevarsi, i passanti di fronte a me a testa in giù e le gambe che mi cedevano.

Un vuoto nella testa, come quando un'onda ti colpisce all'improvviso in pieno viso e, per una frazione di secondo, smarrisci la dimensione spazio temporale .

Tutto girava e le orecchie fischiavano. Mi sono appoggiata alla balaustra che costeggia la via Val d'Intelvi.

Mi è sembrato che tutto tornasse nelle caselle giuste: il marciapiedi sotto i piedi, i passanti con la testa in su e le gambe a sorreggere il busto.

Allora ho staccato la mano e ho provato a muovere qualche passo: le gambe procedevbano per conto loro, sghembe, come la mia testa. Davanti a me ancora quel vuoto che mi divorava.

Ancora la giostra in testa. Mi sono riaggrappata al mio scoglio urbano e ho iniziato a respirare profondamente, cercando di rimanere calma.

La mente però conotinuava a correre: dovevo entrare nel cancello della scuola, dirigermi nel punto che Nina mi aveva indicato; dovevo andare a recuperare Nina, che mi aspettava.

Ma le gambe non ne volevano sapere di eseguire quello che il cervello dettava. Molli, prive di forza.

Allora, le mani a conficcate nella ringhiera, ho iniziato a procedere passo dopo passo, lentamente. I piedi incerti come quelli del bimbo che muove i primi passi.

Ho avuto paura di cadere, di perdere i sensi e di non poter andare da mia figlia.

L'appiglio stava terminando, era il momento della verità: procedere o accasciarsi.

Mentre pensavo a tutto questo, una signora, prima dietro di me, mi ha superata, ha voltato il viso e ha posato il suo sguardo, vuoto, su di me.

Poi si è girata nuovamente, è passata oltre senza dire una sola parola. Senza chiedere a quella donna abbracciata a un paletto di ferro, se fosse indifficoltà, se le servisse qualcosa.

Nulla.

Mi sono sentita sola e ho avuto davvero paura. Se mi fossi sentita male, nessuno avrebbe mosso un dito per soccorrermi.

Tentennando ho imboccato l'ingresso della scuola e, pianissimo mi sono diretta al luogo conovenuto.

Dietro la mia schiena il tronco di un albero bagnato a farmi compagnia e ha restituirmi un po' di empatia.

Stavo per mettermi a piangere. Poi Nina è comparsa all'orizzonte. Allora ho ricacciato le lacrime in gola.

Lei è arrivata, mi ha sorriso, mi ha teso la mano e io ho ripreso a sentirmi viva.



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