CERECANDO IL BELLO CHE C'E'
C’è tanta confusione, fuori e dentro i miei pensieri.
Avverto lo stato liquido di questo tempo, la mancanza di
approdi in cui trattenersi e riprendere forza, energia per proseguire il
cammino.
Sento di essere circondata da un brutto che non pensavo
potesse raggiungere tinte così stonate.
Manca armonia; nelle forme, nei suoni, nelle dimensioni,
nelle parole.
La smania di fare breccia in una altro che, spesso non si
conosce, per colpirlo, carpirlo, convincerlo induce a spogliarsi di quella
pudicizia che una volta il tempo dell’attesa imponeva.
Io per prima mi trovo spesso fagocitata in questo
ingranaggio per poi stupirmene.
Qualche anno fa, mai mi sarei staccata dal libro che stavo
leggendo per sbirciare il mio telefono, distratta dal bip bip della suoneria.
Ora lo faccio e, per non cadere in tentazione, lascio il
cellulare in un’altra stanza.
Poi, di contro, mi capita di dimenticarlo a casa per ore,
di essere cosciente di ciò e di goderne, di godere della libertà di non
esserci, di non essere raggiungibile. Libera di girare senza che nessuno mi
intercetti.
Colgo i limiti della comunicazione last second, odio le
abbreviazioni, odio il correttore, eppure ne fruisco.
Fino a pochi anni fa, per accedere ai social o alla propria
casella di posta elettronica, bisognava avere a disposizione un PC o tablet,
aver voglia di accenderlo e solo allora scrivere. Questo comportava un
necessario rallentamento che giovava alla comunicazione.
Ora si vomita. Io vomito: vomito pareri, vomito pensieri,
vomito immagini.
Certo, come punto di attenzione, chi può negare che i
social siano buona cosa. O come non
apprezzare la velocità con cui comunicare a chicchessia, fosse pure dall’altro
capo del globo, il proprio affetto, fargli sapere, anche solo con un’immaginetta
stereotipata, che la/lo stiamo pensando.
Bello, indubbiamente.
Se il tutto si limitasse a questo, dove il male?
Il male sta non nel mezzo, ma nell’uso, soprattutto quando
questo uso diventa strumento di propaganda.
Mi spiego meglio; in ogni era quelli che stavano al
potere usavano i mezzi a propria disposizione per comunicare, affermare il
proprio potere, dichiarare il proprio volere.
Dalle grandi opere architettoniche fino agli affreschi,
passando dai palazzi signorili.
Come non ricordare l’uso sapientissimo che le grandi dittature
hanno hatto di stampa e ancor più della radio, laddove si ritrovavano un popolo
analfabeta.
Storia docet.
C’è però una differenza rispetto all’oggi: c’era una
ricerca estetica alla base della ricerca del consenso.
C’era la volontà di lasciare una traccia del bello, o di
ciò che si credeva tale, del proprio tempo.
Ora c’è piuttosto la narcisistica pretesa di esserci, basta.
Mostrare demagogicamente al popolo di essere uno di loro:
lo stesso linguaggio, i selfie con fidanzate/amiche/…
Istantanee di momenti di svago propri della gente comune,
oddio, non di tutti!
Ecco, voglio cercare di sfrondare quella che è la missione
politica di questa iconografia contemporanea del potere per analizzare, come mi
hanno insegnato a fare, solo la cruda immagine.
Inquadrature e tagli banali, distribuzione delle figure
sulla scena caotica, colori stridenti e piatti, totale mancanza di profondità e
chiaroscuro.
O, all’opposto, montaggi così artificiosi da essere più
stucchevoli della pittura devozionale secentesca post tridentina. Volti di
politici che ricordano quelli di santi in stato di ascetico rapimento, luci che
sembrano prese in prestito dalle lumeggiature del Tintoretto (mi scusi il
Sommo).
Ma dov’è il bello.
Dov’è l’iconografia di questo tempo.
Sono rimasta indignata dalle foto scattate al Papete da Mr
Muscolo.
Al di là dell’intento politico alla “volemose bbene”… l’immagine
è brutalmente volgare.
Ricorda l’iconografia degli addii al celibato, in cui il
futuro sposo di turno si concede l’ultima trasgressione sbavando di fronte al
prototipo della donna “vieni che ti disfo”.
Poi il giorno dopo, abito da cerimonia, occhio da pesce
palla e mani giunte davanti all’altare.
Ora, premetto che provo raccapriccio per gli addii a celibati
e nubilati in generale, in particolare ai modelli di cui sopra.
Quando però chi mette in scena tale volgarità è un
politico, ministro o no, non importa, davvero mi dico: “Molto bene” (cit Prof.
Fossati).
Se questo è l’unico modo per scaldare le masse, significa
che i contenuti sono poveri, poverissimi.
Ieri sera il Prof. Zecchi sosteneva che, dietro queste
immagini, c’è una grande capacità comunicativa.
Detto da lui che insegna estetica e ha scritto un saggio
intitolato “La bellezza” … mi ha fatto un po’ specie, però non posso dargli torto.
Non c’è nulla da dire, Mr. Muscolo ha appreso bene la
lezione dal grande vecchio, d’altro canto è figlio delle TV commerciali e certi
modi si introiettano.
Diceva, Zecchi, che Mr. Muscolo sa ascoltare la gente,
cogliere i suoi bisogni, farne un sunto e poi esporli nei canali ufficiali. In
breve, sa dare le risposte che la folla attende da tempo, inascoltata da una
sinistra che si è racchiusa nella propria turris eburnea, circondata solo dalla
più scelta intellighenzia.
Sulla seconda parte concordo; la sinistra ha smesso di fare
la sinistra da troppo tempo, troppo impegnata a smacchiare giaguari già
smacchiati da mo.
“A ciascuno il suo”, direbbe il buon Sciascia,
Sul primo punto ho invece da obiettare. Ascoltare la gente
è una cosa, cercare le risposte ai loro bisogni è un’altra e un’altra ancora è
dare le risposte che il vulgo desidera sentire.
Se il volgo grida “crucifige”, cosa si fa, si scatena una
crociata?
No, la politica è altro.
E’ prima di tutto educarsi a scindere tra pancia e testa,
sapere che ci sono limiti invalicabili anche di fronte alle emergenze più
stringenti e aiutare la folla dei malcontenti a capire le ragioni del malessere,
per poi trovare soluzioni eque, in grado di non additare scontati bersagli, evitare
panacee spicciole, barricarsi dietro false ideologie fondate su niente.
No, caro Mr. Muscolo, non mi piaci per nulla.
I proclami a braccio sono pericolosi: incendiano le folle e
poi provocano autocombustioni.
Proviamo a rispondere al brutto che ci circonda col cercare
il bello che c’è ovunque: in un verso di una poesia, in un dettaglio di una
vecchia foto, nei racconti sgrammaticati, ma sinceri, dei nonni, in un monte
illuminato dal sole, nella spiaggia che si spopola la sera e torna a regalare
il respiro del mare, nella mano minuscola di un bimbo che afferra il tuo dito e
si affida con totale fiducia.
Se ritroviamo il bello sappiamo anche riconoscere il brutto
e indignarci di fronte a immagini o parole che di armonico non hanno proprio
nulla.
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