LA PIU' AMATA ... non da me

LA PIU’ AMATA  … non da me
Ci sono alcune volte in cui mi chiedo  quale criterio abbia adottato nella scelta del libro che sto leggendo.
Questa è una di quelle. Puro istinto. E non è detto che la scelta di pancia vada sempre bene.
Mi aggiro tra i libri della libreria Linea di confine e lo sguardo si posa sulla copertina di un romanzo con al centro il volto paffutello di una ragazza. Mi incuriosisce. Leggo il nome dell’autrice: Teresa Ciabatti. Questo nome… già sentito:  devo aver già letto qualcosa di suo, ma il ricordo è confuso e nebuloso.
Poi Tiziana mi mostra l’ultimo suo romanzo: “La più amata”. Secondo allo Strega. Non che la cosa susciti in me grande interesse, ma la copertina è vivace, i colori e il taglio della scena mi fanno ben sperare.
Leggo allora la quarta di copertina. Pare intrigante. Apro a caso il romanzo, rubo qualche frase qua e là e poi decido di comprarlo.
Tornata a casa lo azzanno, ma da subito mi si smorza quell’appettito che sembrava divorarmi.
L’incipit è un po’ vago: un coccodrillo verede in una piscina azzurra. Anche dal punto di vista cromatico mia pare nella norma.  Parte in terza persona, descrivendo luoghi e persone, per poi terminare con una prima plurale. Nulla di così innovativo.
Proseguo. Il ritmo è costante, un tranquillo tragitto su strada di campagna tutto in terza: nessuna brusca frenata, ma neppure nessuna impennata.
Poi la voce narrante si fa in prima persona, uno stile quasi diaristico alla Svevo, in cui i fatti vengono narrati scavalcando l’ordine cronologico per dare libero respiro a ricordi e impressioni. Si procede nel racconto, si torna indietro a immagini già abbozzate, a ricordi già affiorati, si riflette, si riparte e così fino al termine della storia.
La trama non ha nulla di eccitante: Teresa Ciabatti, autrice e narratrice, quarantaquattro anni, cerca di rintracciare le cause del suo essere adulta incompiuta ricostruendo, da un punto di vista squisitamente soggettivo, il suo, la sua storia familiare, una storia che gira tutta intorno all’enigmatica figura paterna.
Lorenzo Cibatt, primario dell’ospedale di Orbetello. Diventa l’ossessione della protagonista che, a ventisei anni dalla morte del genitore, decide di scoprire la sua vera natura.
Un susseguirsi di dati anagrafici, vicende familiari precise al limite del pedissequo in cui giorni, mesi, anni vengono elencati con precisione cronachistica. L’impressione che si vuole suggerire al lettore è che ciò che si sta srotolando sulla carta è  la realtà. I fatti sono stati questi.  Compaiono nomi di uomini illustri e potenti della storia contemporanea italiana, uno fra tutti quello di Licio Gelli. Poi la certezza di trovarsi di fronte alla realtà viene bruscamente frenata dall’autrice che insinua il dubbio. Era lui, Gelli? Mi pare di ricordare.
Dal piano del reale si passa a quello dell’ipotesi. Quasi un gioco pirandelliano del “Così è (se vi pare)”.
Questo andamento bipolare giocato tra certo e possibile o solo probabile diventa la costante del romanzo, la bussola fornita al lettore per orientarsi in un dedalo di episodi, ricordi, immagini, sogni, incubi.
E allora chi è davvero Lorenzo Ciabatti? Ognuno, prima fra tutti Teresa, si dia la propria riposta, si confezioni la propria verità.
Tra le figure che si stagliano sullo sfondo di case bellissime, palazzi del Quattrocento, ville con piscina vista mare, nessuna però convince fino in fondo. Silhouttes appena abbozzate, senza spessore,  in un gioco di ombre.
Neppure la protagonista. Al momento della chiusura del libro, in quell’attimo di sospensione in cui si allenta il legame con i tanti volti che ci hanno tenuto compagnia, ci si domanda quali sentimenti abbia suscitato Teresa. Tenerezza, complicità, simpatia? Nessuno di questi, piuttosto un vago sentore di fastidio per i suoi modi eccessivi e gridati, per quel suo egocentrismo smodato, per quel narrare sempre al presente, come se passato e futuro non appartenessero al suo piano temporale. Tutto lì e ora.
Va bene, mi dico, un libro in più, un’esperienza in più.
Non sono soddisfatta. Allora mi metto a cercare notizie sull’autrice e scopro di aver già letto un suo lavoro:”Adelmo, torna da me”.
La nebbia si dirada e si fa chiara l’insoddisfazione che mi aveva procurato, allora, circa sette o otto anni fa, la lettura di quel romanzo.  Lo cerco, non lo trovo. Allora ricordo: l’ho buttato. Uno dei pochi.
Ne deduco che, difficilmente, tornerò a leggere qualcosa della Ciabatti, men che meno a guardare film con la sua sceneggiatura. Un titolo tra tanti? “Tre metri sopra il cielo”.
Cielo! Mi viene appunto da esclamare. Tutto torna, il cerchio si chiude …  con Moccia.
Decisamente non fa per me.

E chiamatemi pure snob. Accetto, intasco e tanti saluti.

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