La vita soltanto di Andrea Munari

Inizio a essere preoccupata: questa è la seconda volta in cui il colpo di fulmine si rivela un flop.

Dopo l'ultimo romanzo della Ciabatti, questa volta si tratta della prima opera di Munari.

La cosa è andata circa in questo modo.

Di ritorno dalla piscina, accaldata e stralunata dall'afa e dalla ressa, mi rifugio in libreria per acquistare un romanzo per un amico. Mentre la libraia mi confeziona il pacchettino, io mi guardo in giro, vedi mai che mi sia sfuggito qualche titolo.

E infatti ... Zac, eccolo.

In copertina una foto di famiglia in bianco e nero dal sapore fine anni Quranta. Il mio genere, penso!

Afferro il volume, lo rigiro tra le mani, leggo la quarta di copertina e il trafiletto interno.

Mi ispira. Chiedo allora alla libraia notizie in merito a questo romanzo di cui nulla so e lei ne tesse le più sperticate lodi.

Mi parla dell'autore, del contesto storico della vicenda, dall'analisi a più piani che se ne può dedurre.

E io, abituata a fidarmi di chi vende libri, coccolata è viziata da Tiziana e Luisa (amiche, dove siete?), lo acquisto, felice di essermi fatta un così bel regalo.

Passa qualche giorno, nel frattempo termino il romanzo di Stephen Kingston e poi inizi "La vita soltanto".

L'incipit mi pare discreto, nulla di travolgente, ma, mi dico, è un'opera prima, soffrirà di qualche ingenuità.

Proseguo nell lettura.

La storia fila, però non decolla e, soprattutto, sulla pista di atterraggio resta il mi entusiasmo, insieme ai 16 "euri", tanto è costato.

Di cosa si tratta.

Mistero presto svelato: saga familiare che si snoda tra la fine della Grande guerra e la fine degli anni Novanta del secolo scorso tra Vetto, paese del crinale reggiano dell'Appennino, e Milano.

Attraverso le peripezie della famiglia, quella dell'autore stesso, vengono sommariamente ripercorse alcune delle tappe della storia contemporanea italiana.

Di per se' l'idea poteva anche essere buona, Oddio, non proprio originale, vista la lunga lista di autori che già hanno prodotto in tal senso.

È proprio lo stile che non funziona: piatto, tutto monocorde.

Neppure quando l'autore racconta di situazioni drammatiche al limite della tragedia la tensione emotiva sale.

Chi legge, parlo naturalmente per me, non è invogliato a proseguire nel racconto per scoprire, vivere, provare, sentire.

È' più il senso del dovere che spinge a terminare il romanzo che il gusto della lettura.

Altro punto dolente.

Già la storia, come si diceva, non decolla, ma allora, cosa inserisci, o autore, digressioni di carattere storico, culinario, culturale, etnografico, antropologico ...

Sono stati scomodati da Dante al commissario Calabresi.

Anche no.

Non si può pensare di condensare in 330 pagine tutto lo scibile umano!

Molte ingenuità, troppe, o forse troppa voglia di far sfoggio di cultura, che è anche peggio.

Sarebbe stato più dignitoso, a mio avviso, il semplice racconto della gita familiare, tra litigi, balli e pianti.

E comunque ho concluso che alla mia età e' ora di finirla coi colpi di fulmine.


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