PANTA REI
PANTA REI
Sarà
forse una coincidenza, sarà piuttosto l’età che lievita come e più del mio
pane, sarà questo scorcio di agosto che richiede un rapido bilancio, prima di
rituffarsi nel rutilante ritmo di un settembre che si preannuncia frenetico
Sarà,
ma da qualche giorno mi ritrovo a fare i conti con un passato recente che
sembra tanto lontano.
Mi è
difficile parlare della mia famiglia, preziosa come il più prezioso dei tesori,
forse per questo la celo dentro lo scrigno del mio riserbo.
Eppure ora mi viene quasi spontaneo aprirlo
questo scrigno, per curiosarvi dentro, alla ricerca di una felicità antica che
ha il profumo della torta della mia nonna Rina e la bonaria risata di mia zia
Fanny.
Un
altro pezzo della mia storia se ne è andato e aumentano gli spazi vuoti dell’affresco
familiare che mi ha accompagnato nella mia crescita e nella mia formazione.
E
come capita sovente, quando qualcuno che ci è sempre stato accanto se ne va, i
superstiti rispolverano immagini, parole, profumi, sapori.
Riaffiorano
alla mente volti dai contorni netti o sbiaditi e soprattutto modi di dire, così
caratteristici da contenere la vera identità di quella che chiamo famiglia.
Casa
è, almeno per me, la lingua delle origini, un dialetto dal suono duro e chiuso
come i passi di montagna che separano il crinale reggiano dalla Garfagnana.
Casa
sono i nomi della gente di un minuscolo paese, così storpiati da essere
talvolta irriconoscibili.
Casa
è quello strano monte chiamato Pietra di Bismantova che domina sui pendii
circostanti, contessa sui suoi feudi.
Casa
sono i tanti che vivono nel mio ricordo e che, quasi per un accidente del
destino, una fotografia, un filmato restituiscono al presente.
Casa
talvolta ha l’ingombro dell’assenza, che non si riempie, neppure se attorno alla tavola gli invitati abbondano.
Ieri
sera ho rivisto un vecchio dvd girato da mio cugino.
E’
stato come essere catapultata dieci anni indietro nel tempo, saettata da un
invisibile arco in una passato fatto di persone e situazioni che si davano per
scontate e che sono evaporate in una frazione di secondo.
Le
voci, più ancora che i volti, i timbri
di ciascuna delle persone che mi hanno forgiato con le loro mani rassicuranti e
sempre presenti.
Era
così naturale essere insieme. E oggi rifaccio le stesse cose senza di loro: mi
alzo, mangio, sorrido.
Ci
sono stati momenti in cui mi è sembrato che nulla avesse più un senso, che la
mancanza di mio padre, mio zio fossero impedimenti troppo grandi per consentire
al tempo di continuare a scorrere
Che
non sarei più riuscita a fare pace con questi monti da sempre avvertiti
necessari.
Loro
che erano stati il mio rifugio dove accorrevo per leccarmi le ferite.
Per
un paio d’anni ho faticato a tornarci, non volevo abbandonarmi nuovamente a
loro, a loro che, bastioni invalicabili, non avevano protetto abbastanza la mia
felicità consentendo al dolore di penetrare dentro la mia casa.
Ma
ogni volta che si avvicina il momento di partire, di lasciarli, una tenaglia mi
stringe lo stomaco.
E mi
sento pianta sradicata dal suo terreno.
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