FOOD

Baggio luogo di goliardia e di riflessione.

Ieri sera, dopo un buon calice di Pecorina in compagnia di amici, ho raggiunto la mia metà per assistere alla presentaazione dell'ultimo romanzo di Ferrari, saga Brandelli.

Per chi non lo concoscesse è uun bravo bravissimo scrittore di noir .

Ma non divaghiamo.

Presentando il suo ultimo libro si è soffermato sul tema del FOOD che ci sta completamente travolgendo da qualche anno a questa parte. Chef stellati che, in giacca e cravatta, partecipano  a trasmissioni televisive dissertando sul e del nulla.

FOOD, cibo anonimo, senza una sua identità, un passato capace di raccontare e trasmettere sentimenti e sensazioni.

Poi finita la presentazione ... un buon mojito baggese ... conseguenza: questo post.

Le parole di Ferrari hanno rimbalzato nella mia testa per tutta la mattinata, riportando a galla ricordi lontani nel tempo.

A casa mia non è mai esistito il CIBO. E' sempre esistita la tavola e i suoi commensali.

Per me che l'Emilia, o dolce patria, parlare genericamente di cibo è come bestemmiare.

In famiglia ci sono i piatti, quelli legati alle feste e quelli legate allle persone, perchè i preferiti, perchè le loro specialità, perchè ti ricodi di quando...

Cucinare per qualcuno equivale a donarsi, donare, per quando mi riguarda, la parte migliore di me, la più autentica, perchè l'atto non consente trucchi o mediazioni.

O ti dai o non ti ci metti neppure.

Significa spogliarsi degli abiti e della maschera che il quotidiano ti impone e affondare  le mani nella farina, nelle uova e sporcarsi e sudare e puzzare, anche se non c'è profumo migliore di questo gesto d'amore.

Io non cucino per tutti, soprattutto non cucino i piatti di famiglia o legati alla mia patria per tutti.

Lo faccio solo per coloro che sono nel mio cuore o stanno entrandoci.

Donare quanto fatto con le mie mani è per me un gesto di fiducia oltre che d'amore, perchè affido una parte di me, forse la migliore, come un segreto da custodire.

Cucinare per qualcuno a cui si tiene, concedetemelo, ha qualcosa di eucaristico.

Ancor più condividere il frutto di ciò che si è realizzato allo stesso tavolo.

Ecco perchè non amo aprire le porte della mia casa a chiunque e, men che meno, condividere il desco.

Se entri in casa mia e condividi con me ciò che le mie mani e il mio cuore hanno prodotto, entri in me, in qualla Martina che spesso nascondo o con un velo di cinico sarcasmo o con l'infallibile arma dell'ironia.

Ancor più di rado apro la porta della mia casa di montagna, del mio vero nido.
Lì davvero riesci a toccare la mia carne, quella che se premi con troppa superficialità strilla.

Ai piatti di casa sono legati i miei ricordi d'infanzia e non solo.

Ho 47 anni e briscola, mia nonna è mancata ventisei anni fa, eppure, ogni volta che vado in montagna, una delle prime cose che faccio è aprire il forno sperando di trovare quella fetta di torta, il bianco e nero, che immancabilmente lei mi faceva trovare quando da Milano arrivavo per le vacanze. E poi il frigorifero, dove non mancava mai una ciotolina di crema pasticciera.

Ricordi belli, ricordi dolorosi.

Come quel piatto di minestrone che mio padre ha mangiato durante l'ultima cenainsieme, mandato giù di controvoglia perchè sperava in una fumante piatto di spaghetti al sugo.

Ho conservato per anni il tovagliolo usato dal mio papà quella sera. Ogni tanto lo prendevo alla ricerca di una sua traccia, della sua presenza.

Poi, tra lavori di ristrutturazione e trasloco è sparito.

Ancora oggi quando mangio il minestrone penso a lui e al suo ultimo rimpianto e così, quando cucino il sugo di pomodori, la pummarola, cerco di farla sempre come piaceva a lui, perchè così facendo mi sembra che mi sorrida.

La stesssa cosa accade quando in montagna vado al salumificio Boni. Di fianco sento sempre la presenza dello zio Vito. I suoi prosciutti stagionati e curati con tutto il suo amore, accarezzati per essere pronti in agosto, così da essere condivisi con la famiglia.

Mi sembra sempre di sentire la sua voce da tenore :"Martina, vieni che ti faccio assaggiare questo crudo! L'ho fatto stagionare come si deve".

Caro zio, nessun prosciutto ha più il tuo sapore, un sapore di generosità e saggezza.

Quindi concludo con un atto di presunzione.

Questo post, vomitato di getto, come sempre faccio, lo dedico ad Andrea Ferrari che ha saputo far riaffiorare voci lontane nel tempo ma sempre presenti in me.

Adesso vado a preparare le tigelle!

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