UNA PIOGGIA CHE NON LAVA

Oltre all'abbigliamento da montanara della domenica, avevo con me un piccolo zaino in cui avevo stipato di tutto: dalla felpa del non si sa mai che torni a far fresco, all'immancabile sciarpa per tenere al caldo il collo, fino a due bottigliette d'acqua per sedare la sete in caso di aridità delle fauci.

Naturalmente non poteva mancare il cellulare, tenuto nella tasca davanti, più per l'esigenza di averlo a portata di mano per scattare foto che per telefonare.

Partenza dalla vecchia casa, tutta in pietra locale, di Alessandra.

Avevamo appena iniziato a percorrere la salita che porta alle Pirelli e subito la nostra marcia era stata interrotta dai saluti di Paola, la badante della zia Fannì, unica superstite della numerosissima famiglia che, fino a qualche anno fa, animava la piccola frazione del paese, inerpicata sul promontorio che stavamo percorrendo.

Avevamo così trascorso circa una quindicina di minuti insieme a lei e alla zia Annina, che ci aveva offerto una fresca quanto insolita bevanda: un estratto di salvia, rosmarino e limone. L'avevamo trovata in salute e di buon umore, anche grazie al piccolo giardino che era riuscita a ricreare nell'aiuola davanti all'ingresso di casa. Pochi fiori, come diceva lei, ma che l'aiutavano a riempire le ore della giornata senza senitire il peso della noia e l'assenza del suo compagno di una vita, lo zio Ennio. Lei che aveva sempre coltivato orti da fare invidia a quelli riprodotti negli spot pubblicitari, ora si accontentava di un cespuglio di lavanda e ortensie di un rosa cangiante da togliere il respiro.

La casa della zia si trova proprio appena poco più in basso rispetto a quella del tanto chiacchierato professore, così avevamo chiesto a lei curiosità e conferme su quanto circolava in paese e non solo.

Ci aveva raccontato, con la sua voce pacata, ma ancora squillante, che il professore, di Parma, dove era nato e dove insegnava entomologia all'università, aveva chiesto in affitto la casa di un altro zio, Sirio, perchè interessato a testare alcuni insetti come antiparassitari per l'enorme ciliegio che, da quando ho memoria, campeggia proprio sul pendio di fronte alla villetta.

Il contratto non era andato a buon fine, dal momento che il nipote dello zio, attaccatissimo al nonno e alla casa di famiglia, aveva deciso di trasferirsici a vivere insieme alla moglie, una graziosa ragazza russa, che, neanche farlo a posta, somigliava nell'aspetto e nella corporatura alla moglie dello studioso.

Proprio su suggerimento della zia Annina, che ancora tiene le fila della famiglia, aveva allora scritto ad Alberto, il figlio dello zio Dante, per chiedere in affitto la grande casa all'imbocco del bosco.

Ormai in Germania da anni, Alberto aveva accettato e così, da ormai sei mesi il professore era entrato a far parte della comunità delle Pirelli.

Roberta, incuriosita dall'espressione usata dalla zia, aveva allora domandato se il far parte della comunità equivaleva a scambia di parola e favori.

La zia, col suo sorriso sornione, ci aveva spiegato che no, assolutamente, il professore e la sua signora, così aveva detto, erano persone riservatissime, al limite della clausura.

Non li si vedeva mai in paese, neppure nella piccola bottega gestita da Daniela, l'unica a rifornire di cibo e generi di prima necessità la comunità locale, sempre più ridotta nel numero a causa della dipartita degli anziani e della partenza dei giovani, alla ricerca di un lavoro più sicuro di quello dei campi.

Pareva che non vi acquistassero neppure il pane e che la signora del professore provvedesse personalmente a farlo in casa.

Lui, il professore, si alzava al mattino prestissimo, poi con l'auto raggiungeva Parma dove, per quel che era riuscita a sapere la zia, insegnava. Poi rientrava nel tardo pomeriggio, sul fare della sera. Parcheggiava l'auto nel garage e poi, fino a mattino successivo non metteva più piede fuori dalla porta se non per fare, quando il tempo lo permetteva, delle passeggiate nel bosco, solo però, mai accompagnato dalla sua signora.

Alessandra, dopo qualche tentennamento dovuto alla sua riservatezza e alla sua ormai arcinota allergia nei confronti della calunnia, perchè, va bene farsi due risate e ascoltare il ciaccolare degli abitanti, ma il gettare fango su qualcuno è ben altra cosa, dopo averci lanciato cenni d'intesa,  aveva domandato alla zia se anche e lei fossero giunte notizie di una doppia famiglia. Al bar del paese, da Silvano e la Gina, infatti, c'era chi aveva giurato di averlo incontrato a Parma in compagnia di una donna e alcuni bambini.

No, la zia di questo non sapeva nulla.

Dopo qualche parola ancora, avevamo deciso di riprendere quella passeggiata nel bosco non ancora iniziata.

Mentre camminavo, voltandomi appena, avevo visto con la coda dell'occhio la zia, che china sui suoi fiori, toglieva le foglie secche e li accudiva con un amore quasi commuovente.

Dopo circa un paio di minuti eravamo giunti proprio di fronte alla grande casa dello zio Dante e della zia Anita.

Nonostante il tempo trascorso, conserva ancora il fascino che esercitava su di me bambina. Il grande portico che dà sul giardino e le tre porte a vetri che immettono nella sala che, nella mia memoria, era grandissima, all'interno della quale la zia, la radio sempre accesa per rimanere sempre aggiornata sulla scena politica italiana, la tv no, raccontava solo frottole e poi troppi culi nudi, cuciva con la sua vecchia Singer a pedali.

Povera zia, anche lei, come mia nonna, rimasta vedova troppo giovane. Forte e saggia, tenera e inflessibile allo stesso tempo, non aveva ceduto al timore della solitudine e aveva incoraggiato Alberto, unico figlio, a seguire la sua carriera da ingegnere in Germania, dove poi si era sposato e si era fermato a vivere.

Mi parlava spesso della nostalgia che provava per i quattro nipoti, i suoi colossi, ma mai con rammarico nè col rimpianto del non essere stata capace di bloccare quella partenza che l'aveva condannata a stare sola e lontana dai suoi affetti più cari.

La casa era identica: stesso giardino, stesso portico, ma le porte, quelle che trovavo sempre aperte ad accogliere chi passava, erano chiuse, ermeticamente chiuse, anche con le imposte di legno.

Pieno pomeriggio, durante una giornata fresca, davvero aveva dell'assurdo.

Il sentiero che sale al colle e immette nel bosco costeggia il lato destro dell'edificio e così, passandovi accanto, avevamo potuto verificare di persona quelle voci che, poche ore prima, tanto ci avevano fatto sorridere.

Anche le finestre erano chiuse, esattamente come gli ingressi.

L'impressione era quella di essere di fronte ad una casa disabitata, se non fosse stato per i bei fiori curati nel giardino e per il piccolo orto che dava sul retro della casa. Poche verdure: zucchine, carote, ciuffi di prezzemolo, un enorme vaso di rosmarino che diffondeva una profumo intenso. E poi salvia, basilico e poco altro.

Unica forma di vita le piante, i fiori, il cinguettio degli uccelli e il frinire delle cicale che faceva presagire un imminente aumento delle temperature.

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