UNA PIOGGIA CHE NON LAVA

Il volto di Alessandra era pietrificato. Vista la sua nota fobia per gli animali del bosco, avevamo pensato alla sagoma di una cinghiale.

Da quella distanza era però difficile capire bene la natura di quell'essere spieaggiato in mezzo alla fanghglia.

Una dettaglio però lasciava intendere che non si trattava di un suino selvatico: spuntavan acune ciocche bionde.

Dopo esserci fatte coraggio, Roberta ed ci eravamo avvicinate. il cuore in gola rendeva difficile il respiro e le gambe, questa volta, erano molli non più per il prosecchino ma per la paura.

A mano a mano che la distanza tra noi e quella montagnola indistinta si accorciava,  Roberta e io prendevamo sempre più coscienza del fatto che davanti a noi non c'era un animale, ma un essere umano, più precisamente una donna.

Era immobile, supina, i capelli impastati di fango. Toccarla, non era cosa, il terrore ci impediva di verificare le sue condizioni di salute.

Roberta, allora, preso il cellulare, aveva telefonato al 118 e ai carabinieri di Ligonchio.

Avevamo provato a capire di chi si trattasse. Non la conoscevamo. I tratti non parlavano di una donna locale, piuttosto di una dell'est Europa.

Tante sono le badanti che da qualche anno abitano il paese, poteva essere una di loro.

Nel frattempo avevamo raggiunto Alessandra che si era accasciata su di una pietra ricoperta di sporadici ciuffi di muschio.

Mentre attendevamo i soccorsi avevamo allertato Pippo, marito di Alessandra e Alessio affinchè ci raggiungessero.

Il tempo sembrava non voler passare, paralizzato come le nostre gambe.

Non riuscivamo neppure a parlare: lo sguardo basso e lo spirito a terra.

Quella che era iniziata come un'allegra scampagnata si stava rivelando uno dei momenti peggiori della nostra vita.

La donna continuava a restare immobile, nella stessa posizione in cui l'avevamo trovata. Tutto faceva pensare che fosse morta, magari battendo la testa scivolando su un tratto di sentiero poco battuti dal sole, in cui il fango si era mantenuto ancora fresco e scivoloso.

Dal sentiero avevamo visto spuntare le sagome di Alessio e Pippo e poco dopo la jeep dei Carabnieri. In lontananza una sieran annunciava anche l'arrivo dell'ambulanza.

L'appuntato di turno, subito si era diretto verso la donna per assicurarsi del suo stato vitale: non era morta, ma il respiro era faticoso.

L'opinione del carabiniere era stata confermata dal medico che aveva constatato come la donna riportasse una forte trauma alla nuca.

Subito le avevano messo l'ossigeno e poi, caricatala sulla barella, l'avevano trasportata d'uregnza all'ospedale di Castelnovo.

Terminate le operazioni più urgenti, era giunto il nostro turno.

I carabinieri ci avevano interrogato su quanto avavamo visto e sentito.

Sebbene ancora molto scosse, eravamo riuscite a ricostruire nel dettaglio quella frazione di tardo pomeriggio.

Aaccanto alla donna era stata rinvenuto un piccolo portafoglio contenente pochi spiccioli e un documento d'identità: Irina Slavotova.

Alessandra allora aveva ipotizzato che si potessse strattare della misteriosa donna che viveva col professore.

I carabinieri avevano allora raggiunto la grande casa all'imbocco del bosco e, non ricevendo risposta alcuna, avevano fatto irruzione all'interno.

Nessuno, dentro non c'era nessuno. Solo le tracce di faccende domestiche in corso, una rivista di gossip, e la tv accesa ad un volume bassissimo.

Era ormai chiara l'identità della donna.

Del professore nessuna traccia. Era ormai giunta l'ora in cui rientrava dal lavoro, ma di lui, neppure l'ombra.

Interrogate le persone del paese sui rapporti della coppia, i carabinieri avevano subito fatto scattare l'ordine di fermo nei confronti dell'uomo.

Alessandra, Roberta e io ci eravamo a quel punto salutate e ognuna di noi era rincasata, tristi e incredule di fronte all'accaduto.

Mentre tornavamo a casa, ripassando dalla frazione delle Pirelli, avevamo rivisto la zia Annina intenta a piantare una specie di lavanda.

Era tutta china su quel pezzo di terra che di anno in anno diventava sempre più basso per lei, ma, nonostante i dolori, non demordeva.

L'avevamo salutata e lei, sconvolta, ci aveva chiesto notizie della povera signora. E lei, già da tempo, aveva capito che non era mica una coppia normale quella.

Il giorno dopo io dovevo rientrare a Milano per portare mia madre ad una visita medica.

La sera avevo preferito non rivedere nessuno e impegnare la mente nella preparazione dei bagagli.

Sapevo che da lì a qualche ora la macchina mediatica si sarebbe messa in moto e stampa e tv locale avrebbero assediato il paese.

Il viaggio verso Milano era stato lungo e accompagnato da un assordante silenzio. Anche la compagnia delle note di Billie Holiday non mi dava conforto, anzi provocava in me un forte fastidio.

Giunti nella "Grande Nespola", eravamo stati travolti dalle mille cose da svolgere: spesa, visita medica e poi l'intervento.

Mentre eravamo in ospedale ad attendere che a mia mamma venisse asporato quella strana escrescenza che le era fiorita sulla tempia destra, il cellulare aveva squillato.

Era Alessandra. Ero stat tentata dal non rispondere, cercando di seppellire ulteriormente quanto era impossibile cancellare.

Poi il pensiero di mia cugina, scovolta tanto quanto me, aveva ceduto i posto all'egoismo.

La sua voce mi era giunta ancor ppiù densa di angoscia di quanto potessi aspettarmi.

Mi aveva subito chiesto se fossi seduta, perchè quanto stava per rivelarmi aveva dell'incredibile.

Il professore era rientrato a notte fonda, ignaro di tutto il bailame che lo attendeva. Subito fermato dai carabinieri era stato condotto alla caserma di Ligonchio dove era stato sottoposto ad un lungo e snervante interrogatorio.

Nonostante le domande pressanti del capitano e del maresciallo, non erano emersi indizi che potessero far ricadere su di lui la responsabilità del reato.

La donna si era salvata, ma le sue condizioni rimanevano critiche e veniva tenuta dai medici in coma farmacologico.

Rilasciato, il professore era rientrato a casa sconvolto e annientato dal dolore.

Le ricerche non si erano però nel frattempo fermate.

I carabineri avano fatto un sopraluogo anche nella zona circostante, in particolare nei punti maggiormente frequentati dalla donna.

Giunti nel giardino avevano notato che sra stata sradicata di recente una pianta. Avevano allora chiesto al professore che aveva riferito trattarsi di una specie di lavanda assai rara, che lui aveva trattato con insetti antiparassitari.

A quelle parole mi si era gelato il sangue nelle vene.

Alessandra aveva tirato il fiato e, raccolto quel poco coraggio che le era rimasto, mmia aveva rivelato che avevano fermato la zia Annina.

L'anziana donna aveva presto confessato tra le lacrime.

Sì, era stata lei ad entrare nel giardino all'imbocco del bosco e, con una pala, a estirpare quella lavanda che aveva del miracoloso: perfetta nel suo colore denso e nel suo profumo penetrante.

L'aveva voluta con tutta se stessa. Non le rimaneva più altro se non quattro piantine da accudire.

Non voleva fare quello che poi aveva fatto, ma quando la donna Irina l'aveva colta rubare, per la vergogna si era girata di scatto e postasi alle spalle della donna, l'aveva colpita con la pala.

Il tonfo l'aveva fatta spaventare, acor più la vista di quel cospo accasciato a terra che scivolava lundo il pendio del sentiero, tutta lorda di fango.

Quindi la zia era rientrata, si era lavata le mani e si era messa a piantare quella lavanda meravigliosa.

Ero incredula. Come poteva essere? La zia, quella zia che mi aveva coccolata e tenuta sulle ginocchia fin da piccola.

A tanto può condurre la solitudine?

Ecco, ora che sono rientrata al mio paese, è ancora più difficle comprendere e accettare.

Come può essere accaduto, qui, in questo spicchio di paradiso. Come può essere accaduto alle Purelli, unno dei luoghi della nostra magica infanzia, a noi, a noi che ci ritrovavamo sotto il pergolato carico di uva, nella vecchia casa dei nonni Emma e Giuseppe.
A noi, che nella veccchia stalla, la teggia, volavamo a bordo di un'altalena costruita con un'assicella di legno e legata a un grande trave con pesanti corde.

A noi che abbiamo riso e pianto la perdita dei nostri zii e nonni?

Nulla sarà più come prima. Come faremo a raccontare ai nostri figli e al piccolo Giovanni le epiche imprese dei Riatti omettendo una fatto così grave?

Cerco di stemperare l'amarezza bevendo la birra che Rinaldo ha prodotto insieme a Sandrino e penso che lui se ne è andato senza dover assistere allo scempio del paese che tanto amava.

Non passeremo più per quel sentiero e neppure presteremo più le orecchie ai pettegolezzi su questo e su quello.

Come dice sempre l'Ale, tra il marcio e la muffa ... a questo punto è meglio sospendere il giudizio.





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